Il piano orientale | Zeina Abirached
Nessun piano di quella città era un segreto per lui. Li aveva tutti nel cuore. Con il passare del tempo aveva realizzato una mappa mentale della città con la posizione di ciascuno dei “suoi” pianoforti. Il piano del Teatro Monnot. Quello di Claudine Roukoz, con tutti i tasti d’avorio ingialliti, dotato di due candele con la cera che colava sul legno nero. Quello del Teatro Al-Madina. Quello del Conservatorio Statale. Il piano a coda della sala da concerto dell’università americana. Il codino di Martyvonne Samboussik, su cui suo figlio Tarek di tanto in tanto massacrava “Per Elisa”. E sulla punta delle dita, il piano di Varouj con i tasti segnati per sempre dalle cicatrici dei sigari lasciati sulla tastiera.
Questa è la storia di un’impresa tanto magica quanto improbabile: inventare un pianoforte in grado di mescolare la musica orientale e quella occidentale, per abbattere le barriere territoriali e culturali di un mondo che cambia e si trasforma, non sempre in positivo. È la storia del bisnonno di Zanzoun, alterego di Zeina Abirached, illustratrice libanese classe 1981, che con Il piano orientale (BAO Publishing 2017) racconta la storia della propria famiglia, fatta di lampi di genio e grandi speranze, a ritmo di musiche nuove e antiche. Immigrata a Parigi ma nata in Libano, Zanzoun cerca il proprio posto nel mondo illustrando la particolarità di quell’anima bilingue in cui si confondono arabo e francese, in un fragile equilibrio che ricorda il gioco del Mikado: dalla moderna capitale dove un passaporto sembra il lasciapassare per una libertà ideale, alla Beirut devastata da quindici anni di guerra civile, teatro di evoluzioni ma anche spettatrice delle più atroci crudeltà umane; e in questo teatro frenetico e minaccioso, Abdallah Kamanja — controfigura cartacea di suo bisnonno Abdallah Chahiné, che negli anni ’50 ideò il primo pianoforte che grazie al celebre quarto di tono avrebbe cambiato per sempre la storia della musica contemporanea, avvicinando tradizioni assai distanti. Zenzen parla dal presente degli anni Zero, illustrando un Medio Oriente alla vigilia della guerra con uno sguardo ancora tenero e idealista, palcoscenico di piccole grandi imprese personali, come appunto la costruzione di quello strumento complesso e impenetrabile, che s’intreccia al racconto di uomini dotati d’inventiva e ferrea tenerezza, spirito d’avventura e positivismo: il pianoforte orientale, approdato a Vienna e trattato a lungo con diffidenza, rappresenta un ponte tra mondi conosciuti e lontani, tra violenze e approdi sicuri, tra le fascinazioni del ritmo e la schiacciante prospettiva della staticità. Zeina Abirached (che con questo fumetto placa la nostra nostalgia a vent’anni dall’uscita del meraviglioso Persepolis di Marjane Satrapi) ha un tratto grasso in bianco e nero, dove i colori sono affidati all’immaginario: non le serve niente, se non la lingua del ricordo, perché le sue immagini trovino la propria tridimensionalità. Il segno è spesso, mobile e ricco, come una vecchia tappezzeria in una casa d’altri tempi ma ancora meravigliosa, dentro la quale grazie a questo libro prezioso ci è data l’opportunità di addentrarci, con passo leggero e colmo di partecipazione. Un fumetto lieve ed eroico sulle illuminazioni che ci colgono anche all’alba di nuove tempeste; una testimonianza interessante e commovente, scritta e sceneggiata benissimo.
Questo libro è per i mondi lontanissimi di cui cantava Battiato, per chi fa colazione dialogando col proprio canarino e per chi cerca un libro che non sia solo un oggetto, ma anche una porta spalancata su un universo parallelo, che aspetta di essere attraversata con la chiave del ricordo.
Voto: •••••