Truffaut, pace all’anima sua, diceva che difficilissimo era girare una scena con animali o con bambini. E con i libri? Chiunque si cimenti con un libro nel senso di oggetto filmico deve saperlo percorrere, deve conoscere lo spazio che un libro occupa, che non è questione volumetrica – e basta – è un senso di nominazione: dov’è il libro e qual è il suo posto nel mondo.
Oggetto del cuore, avvezzo al nomadismo. Non conosce casa, né riposo, il libro non dorme. Dormono i collegamenti neuronali di chi lo abita, di chi lo percorre, ma i filamenti luminosi dei segni che lo compongono continuano a brillare anche nella tenue oscurità della notte. E com’è una biblioteca da filmare? Ci sono architetture predisposte ad accogliere troupe cinematografiche, scaffali e interstizi che sanno agire il gioco della seduzione con la macchina da presa.
Ma come si filma un libro? Ecco, questo è il mistero che forse varrebbe la pena indagare. Perché un libro è anche un volume ed anche un codice, ha la chiave del suo segreto iscritta nel DNA e ha la legittimazione del proprio spazio nella sua evidenza. Appartiene al mondo delle astrazioni, delle idee; è segno che non può tradursi in immagine, ma evocatore di altre immagini, di un cinema della mente, astruso e psichedelico, surrealistico eppure così logico, così intraducibile e così chiaro. Ma allora, mi domando, perché ci si ostina a girare i booktrailer come se fossero riduzioni cinematografiche dei libri? Perché non limitarsi a riprendere le parole, già abbastanza amene di suo, senza additivi; perché non corteggiare, semplicemente, la metafisica della parola? Lo chiederei a Truffaut se potessi… se soltanto potessi.
Filippo Polenchi