Il gioco del futuro
Giorni d’intercettazione di notizie. Succede così quando il cielo prende l’aspetto del mercurio rovesciato. Un cielo in subbuglio, inadeguato. Rimango impigliato in una combinazione di notizie che riconducono al solito centro, alla solita voragine di significato, che manipola e attrae: e anch’io ci finisco dentro. Risale a qualche giorno fa la notizia di un’azienda che sviluppa videogiochi e che sta lavorando su un concept dal titolo Super Awesome Brigade: nel gioco una formidabile squadra dovrà combattere mostri e forze del male. Particolare: sia buoni che cattivi provengono dal mondo della storia e della letteratura. Pantagruel e Dracula contro Jeckyll e Giovanna D’Arco.
Alessandra Tomasina di Digital Tales, intervistata da quelli di Lotto49, parla delle connessioni tra videoludicità e narrazione e dice:
Il videogioco ha dalla sua l’interattività e la sfida ma, se vogliamo, è ancora un po’ acerbo sul fronte narrativo, dove domina incontrastato il libro, che resta l’unico a non porre mai limiti tecnici, artistici e temporali alla fantasia. […] L’interattività, al tempo stesso, è un’arma a doppio taglio, perché deve tener conto del giocatore, che non è più solo un semplice spettatore da condurre per mano in mille avventure ma un protagonista che queste avventure si aspetta di viverle in prima persona.
Si potrà più o meno apprezzare il tentativo della SAB, che comunque deve ancora vedere la luce. Si dirà che in fondo i libri-game degli anni Ottanta avevano già detto molto – quasi tutto – sull’argomento e che l’avevano fatto in un modo molto più fantasioso, libero, divertente e intelligente di quanto un videogioco non potrà mai fare. Si vedrà, ma non è questo quello che c’interessa dire qui. E in fondo anche la prima parte dell’intervista citata, quella sul potere della fantasia quand’è libera da appigli visivi, è in qualche modo un assioma.
Il pubblico. Al cinema, sui libri, in musica, nel teatro dov’è sempre presente, guardiano di pietra delle esecuzioni, il pubblico è sempre stato la bestia nera di ogni rappresentazione artistica. Si scrive per un pubblico, si compone per un pubblico e si recita per una coppia di applausi. Senza pubblico nessun artista esisterebbe e su questo nessuno ha niente da dire. Le più efficaci e attuali macchine spettacolari, virtuosistiche a tutti i livelli, sono quelle che stimolano direttamente il pubblico, che lo mettono davanti al piacere di se stesso che guarda o legge. Il teatro è stato il primo luogo dove lo spettatore ha avuto un ruolo stesso nella drammaturgia (Brecht): la quarta parete è stata abbattuta (Carmelo Bene se la cavò alla svelta: appose una lastra di vetro tra il proscenio e la platea, cosicché la finzione d’acquario fosse ancora più evidente e il pubblico ancora più scosso). Poi il cinema, con Godard capostipite e giù in caduta libera. Perfino le avanguardie musicali storiche, quelle di Schonberg e la dodecafonia, tracciano la strada delle proprie esplorazioni intorno alla libertà lasciata all’esecutore – e auspicabilmente anche all’ascoltatore – di modulare le serie musicali democraticamente equivalenti che compongono l’opera atonale.
E la letteratura? La narrazione? Come la mettiamo? (Pausa d’effetto). I giochi metanarrativi, dove il lettore è chiamato a guardare la messinscena stessa più del contenuto, mostrano ormai la corda. Ci hanno provato in tanti, dal comparto francese (Queneau, Perec, Robbe-Grillet) a italiani illustri (Calvino, Eco, Tabucchi): ma ora rimettersi a lavorare su meccanismi metanarrativi suona già francamente desueto. Probabilmente non sarà un videogioco che darà nuova scossa alla questione, tanto più che anche teatro, cinema ecc. in questi ultimi tempi languiscono in attesa che cessi la bonaccia. Insomma, non si vede all’orizzonte una soluzione videoludica (parola orribile), diciamo di narrativa interattiva, a salvare il salvabile.
E se fosse il digitale? Dall’intervista sopracitata mi pare di capire che in questo gioco d’imminente nascita l’interattività con il giocatore è utilizzata con lo stesso paradigma che sottende a tutto ciò che riguarda “editoria in digitale” al momento attuale. Ovvero: il digitale è un immenso magazzino, niente più. Manca una riflessione seria, una maturità del mezzo, perfino il tempo e i soldi mancano (e forse mancheranno ancora per un bel po’). Ma dal mio punto di vista soltanto il digitale potrà da un lato ricomporre le parti divise tra pubblico e rappresentazione in narrativa e dall’altro potrà assecondare e cavalcare e forse dominare la mutazione antropologica che stiamo vivendo. Orfani di idee e sogni, di futuro, di aspettazione. Viviamo un tempo incendiario, che brucia alla svelta i suoi figli. Anche la narrazione ha bisogno di essere incendiata, di acquisire sicurezza e autorevolezza in un mondo che svanisce. Il digitale è etereo, è a-spaziale, è fragile e prezioso. Oggi si parla di narrativa ludica, ma domani si potrebbe parlare di narrativa in generale. Immaginate di poter usare un e-book come un’esperienza al cinema. Anzi: sarà come essere un tizio che ai primi del Novecento aveva l’esperienza immane e sublime del generatore di ombre che ispira devozione, ma anziché avere di fronte l’invenzione del cinema si avrà di fronte la cara vecchia narrativa.
Filippo Polenchi