Il mestiere di vivere, ovvero della solitudine
Chi non vive non scrive, anche se chi scrive non vive. Ma tutti gli scrittori devono poter segnare sul loro curriculum una guerra civile, un’insurrezione sudamericana, una caccia alle balene, il comando di un bastimento congolese? Necessaria è la patente della vita, però, la certificazione di aver attraversato la terra attrezzati di quanto ci è servito per cavarcela, per vivere la giornata e non per forza alla giornata. E poi forse non è solo questo l’importante: quanta vita piena di racconto c’è nell’immobilità ossessionante di una giornata che, come una maledizione, ritorna uguale a se stessa ogni giorno? Quanto romanzo c’è in un uomo seduto sul bordo del letto che aspetta?
Questa infografica racconta dei mestieri apparentemente bizzarri che hanno svolto alcuni fra gli scrittori più celebri. Faulkner ha fatto il postino, per esempio, Jack London il contrabbandiere di ostriche, J. D. Salinger l’intrattenitore sulle navi, Joyce l’attore e il cantante. Chi scrive ha bisogno di vivere, ma soprattutto ha bisogno di sopravvivere, perché la scrittura è un albero che dà frutti tardivi. E anche questo è ormai un romanzo nel romanzo.
Ma quali sono i mestieri di questi scrittori? Sono perlopiù lavori manuali, che impegnano il tempo e l’energia, ma non la mente. Sono lavori precari, senza prospettiva. Coscientemente precari, perché il futuro non è quello, ma è la scrittura. È l’azzardo, la puntata massima sul rosso, giocarsi il tutto per tutto sulla questione dei racconti e dei romanzi e per riuscirci assumere un atteggiamento da santo o da samurai. La preparazione “agonistica” della missione. La disciplina di non affezionarsi a niente, ma solo a quel poco che consenta di portarsi a casa il pranzo e la cena.
Certo, questo è il protocollo poetico, ma la realtà dei fatti è ben diversa: nel precariato autoimposto c’è anche tutto il bagaglio di sventure che il precariato porta con sé, voluto o subito. E poi la vita va naturalmente in avanti e arrivano i figli e bisogna mantenerli (vedi Stephen King quando lavorava come garzone di lavanderia). Le bollette sono da pagare. Spesso la reale discriminante fra chi riesce a vivere dei frutti della scrittura e chi, semplicemente, decide di piantarla lì e cerca un lavoro che sia meno precario, si nasconde nella domanda: quanto sei disposto a sacrificare per fare lo scrittore? Quanto egoismo c’è dietro una scelta simile? Quanta solitudine miserabile c’è dietro una pagina che il mondo ricorderà? O forse non la ricorderà nessuno, perché il gioco è appunto d’azzardo e nessuno sa chi vincerà, né se il banco sta bluffando. Forse ha ragione chi dice che se scrivi non vivi.
Filippo Polenchi