La prima impressione è quella che conta
Fatico a ricordare la copertina memorabile di un libro. E se mi sforzo fatico a ricordare anche il manifesto indimenticabile di un film. Ricordo uno stile di locandine. Ho deboli ricordi di copertine di VHS, ma perlopiù si trattava di immagini di servizio, fotogrammi estrapolati dalla pellicola ed elaborati con rudimentali tecniche di grafica computerizzata. Ricordo benissimo, invece, le copertine dei dischi, a loro modo piccole opere d’arte al servizio di altra arte: funzionali e d’occasione, poetiche e riflettenti; il valore del disco si moltiplicava per le grazie della sua vestale. Ma sui libri, per quanto mi sforzi, non emerge molto. Certo, ho uno schedario mentale nel quale le case editrici abitano: lo stile bianco ed essenziale, la fioritura grafica di colori, l’eleganza formale e la ricercatezza vintage.
Mettiamolo per scritto: le copertine dei libri non sono memorabili. Si consegnano con disinvoltura all’oblio. Con gli e-book la faccenda è ancor più complicata: siamo ancora in una fase aurorale, nonostante i dati di mercato, nella quale non si ha chiaro come dovrebbe essere l’oggetto digitale. Da queste parti l’abbiamo scritto più volte: per ora gli e-book sono dei profondissimi contenitori di dati. Il post del quale parliamo oggi di certo non scandaglia i territori ignoti dell’editoria elettronica, ma almeno offre soluzioni originali per un problema che ora esiste.
Le copertine degli e-book sono una bella rogna. Spesso i libri che sono stati digitalizzati e ora recuperati non hanno copertine decenti oppure non ne hanno. In questo caso il computer assegna una “cover” generica o nulla al file, come nelle anteprime dei brani musicali che ascoltiamo su iTunes: qualora non sia presente una immagine di rappresentanza iTunes riempie il riquadro con una nota musicale. Così accade per i libri. In questo post veniamo a conoscenza che alla New York Public Library degli sviluppatori informatici stanno ponendo rimedio al problema, ancora una volta recuperando il passato.
Il procedimento consiste nella combinazione di programmi già esistenti, ma il nucleo centrale si basa su questo fondamento: il vecchio codice PETSCII delle tastiere COMMODORE 64 associava a una lettera una figura. Il programma 10 PRINT del C64 era un software di sviluppo grafico che permetteva l’inserimento su una riga di 40 caratteri grafici: una diagonale in alto e una rivolta verso il basso. Mauricio Giraldo Arteaga, autore del post, riprende questo sistema e lo potenzia, perciò associa a ogni lettera una linea o una figura geometrica (un triangolo per esempio), utilizza HSL Color Space per trovare un colore e il suo complementare e abbinarlo al progetto grafico; oppure utilizza le illustrazioni dei libri in condivisione gratuita e le manipola, le modifica, le inserisce in questo regime di lavoro, perciò ottiene un generatore automatico di copertine. Con notevoli effetti di modaiola creatività contemporanea (e dunque vagamente vintage).
Ma se l’immagine è la stazione intermedia tra parola e cosa perché le è toccato questa sorte obliosa? La biografia di un libro vive di successioni che palesano candidamente la secondarietà di una copertina: dalla prima uscita, alla ristampa tutto cambia. Da una traduzione all’altra non c’è un esperanto visivo delle copertine che ne riconosca una dignità, al contrario delle musica che, almeno in questo, non subisce traduzioni da una lingua all’altra, perciò la banana di Andy Warhol sui Velvet Underground e la cerniera dei jeans dei Rolling Stones sono identiche da Los Angeles a Tokyo. Forse è davvero la necessità di tradurre un libro, per farlo vivere al di là del tempo, che delega a una sfera di secondaria importanza la copertina di un libro. Ma c’è anche una sorta di colpa nominalistica: la copertina viene da coperta, da una sfera semantica assistenziale; è un nome prudente, troppo domestico, infantile e birbante con quel diminutivo in “–ina”. È un nome pinocchiesco, goliardico o manieristicamente tenere. Dov’è il fuoco di un’immagine che colga nel segno? Dove sono le immagini indelebili che incendiano le pupille e ne descrivono perpetuamente il proprio ritorno alla memoria?
Modestia a parte Barta Edizioni fa delle copertine un oggetto prezioso, legate come sono alla materialità stessa del libro. Se l’immagine d’apertura è la veste del libro ha ragion d’essere chiamata coperta, perché è intesa come una pelle, come una estetica della carne. Ma per quanto le case editrici si sforzino di rendere incancellabile la vista di un libro la copertina è, e resta, una linea editoriale della casa editrice intera (nel migliore dei casi), dunque si può sperare che l’intera collana abbia una estetica stimolante e originale, ma temo che dovremo derogare ad altro tempo e altra attenzione la necessità univoca di copertina e libro. Nel frattempo sarebbe interessante scrivere una storia delle copertine delle case editrici italiane. Chissà che non ci pensi qualche sviluppatore di app a New York.
Filippo Polenchi
ps. chi oggi fosse interessato a consultare il sito della NY City Lib, come ci ha gentilmente segnalato la stessa biblioteca, può andare qui.