La ricerca d’amore delle parole
In un meraviglioso articolo nel I ferri del mestiere Franco Lucentini – un tizio che per tutta la vita ha sempre considerato la letteratura, e nella fattispecie la narrativa, come un balsamo che dovesse avere diffusione umana e non sacerdotale, dunque attento alle forme della narrazione che non fossero esclusive – insomma, Lucentini si divertiva un poco con gli aspiranti scrittori. E per “divertirsi” leggi “torturava crudelmente le ambizioni velleitarie di molti aspiranti scrittori”. Tuttavia forniva un servizio utile a tutti: invitava alla parodia. Credo che in calce al pezzo citasse una qualche pratica di educazione orientale che prevedeva l’acquisizione completa, una sorta di esamone finale, delle tecniche del maestro attraverso la parodia. Anzi: l’ultima prova era proprio l’imitazione parodica dell’opera del maestro. Di fatto se il mio ricordo fosse parziale e Lucentini non avesse mai scritto una cosa del genere, be’, la dico io adesso e mi prendo questa responsabilità: invito tutti quanti alla parodia.
Scrivere è anche sapere cosa-non-vuoi-essere e allora, di negazione in negazione, chi-vuoi-essere diventa qualcosa di sacro. La parodia non calpesta il sacro, non avanza dove sarebbe più indicato arrestarsi, non dileggia ciò che è dignitoso. La parodia, anzi, omaggia: mostra tutte le declinazioni di un’ipotetica radice e, in qualche modo, ne dispiega la potenza. Il grande Michail Bachtin lo sapeva bene: la parodia può essere una variazione sul tema, dove il tema rimane riconoscibile; è omaggio e partenza, demiurgo e patrocinatore.
Mi sono imbattuto in un’operazione sociale e faccialibresca che mi ha fatto molto ridere. E al comando del riso si spalancano portali d’eternità. “I libri che vorremmo leggere”, recita il titolo dell’album fotografico che l’abile montatore ha pubblicato. E per ogni copertina, a guardar bene, non c’è soltanto un gioco linguistico intorno a titolo e immagine, ma ci sono sottotitoli e citazioni altrettanto gustose. Un’operazione che chiunque si sia messo in capo di portare avanti ha la nostra ammirazione: chiunque sappia riconoscere in, poniamo, Moby Kick! il grido di “Atatatoken a in fronte” è qualcuno che ha vissuto nelle sale giochi di qualche circolino ancora fumoso e ingenuamente miserabile, ma è anche qualcuno che conosce l’originale e apprezza il gioco parodico.
Sarà forse la grande sfida del futuro immediato far apprezzare le parodie; aprire le porte delle accademie agli amabili scherzatori, ai calembour men, a chiunque sia abbastanza amante del Piccolo principe da accoppiarlo con un altro DNA di provenienza diversissima e lontanissima, quel Principe cerca moglie che ha fatto la fortuna di Eddie Murphy: in qualche modo, però, se la procreazione ha ragion d’essere è perché anche soltanto il bisticcio linguistico tra i due soggetti è una forma di affinità elettiva. Voglio dire: sarebbe sufficiente l’immediata disparità linguistica per giustificare Mastro Thor Gesualdo.
Chi l’ha detto, infatti, che la verità non si nasconda in queste minuscole effrazioni delle parole? In fondo è il grande sogno dei manieristi: tutto si consuma nel circuito dell’arte. E perché non credere che le parole di un libro, le parole che compongono una storia, non siano i grani con i quali è impastata la farina del mondo? Allora due parole simili si cercherebbero e si attirerebbero e tenterebbero una danza d’innamoramento, proprio come fanno due alci per dire e alla fine si sposerebbero oppure se ne andrebbero lontane, proprio come gli esseri viventi in cerca d’amore. Ecco, la parodia potrebbe essere sintetizzata anche così: la ricerca d’amore delle parole. Nessuno può dire dov’è il proprio amato fin quando non lo incontra: forse i due spicchi della mela platonica erano nascosti in un Arcade da sala giochi e nelle profondità dell’Oceano Atlantico.
Filippo Polenchi