L’amore sacro, l’amor profano
Laio allontana da sé il figlio per vincere la profezia che lo vedrà ucciso dal suo primogenito; quest’ultimo, sempre secondo il vaticinio, s’insedierà nel suo talamo nuziale. Dunque Laio assicura un’esecuzione al neonato affidandolo a un sicario improbabile, un pastore, e bucandogli un piede (Edipo: piede gonfio). Ma il pastore non avrà il coraggio necessario a uccidere il piccoletto, anzi: lo darà in adozione al re di Corinto. La profezia, tuttavia, raggiunge anche Edipo: egli ucciderà suo padre e sposerà sua madre. Così Edipo – ignorando chi siano i suoi veri genitori – si mette in cammino, auto-esiliatosi nel deserto della Grecia, ormai macchina di morte compulsiva. Sennonché lungo la strada Edipo uccide un ricco viaggiatore che lo aveva insultato: Laio. Da lì la strada verso Tebe, il matrimonio con Giocasta (vera madre di Edipo), il compimento della profezia e la tragedia è breve.
Il professore che ci raccontava Edipo Re si soffermava sull’ambigua voce degli déi. Perché dare informazioni parziali a Laio ed Edipo? Perché metterli nelle condizioni di fuggire da un destino e innescare così un meccanismo di auto-avveramento? I casi sono due – lo sono sempre stati: non si può sfuggire dal proprio destino oppure gli déi si divertono con noi. Terza via: il linguaggio “divino” non usa alfabeti, fonemi e grafie che possiamo capire.
La nostra vita è il transito su un mare uniforme, nel quale di tanto in tanto lampeggiano alghe iridescenti, animali marini di paura estrema, incanti di spettacoli naturali, aurore boreali e di nuovo mare calmo, viaggio senza scosse. Balugina nella monocromia dei giorni, nella cronaca quotidiana delle nostre ore un segno di disparità, la frattura, e subito è il ritorno alla stasi di prima, alla vita di sempre, con un di-più di acquisizione. Forse. Joyce capofila. Proust magnifico intermittente. Kafka inquieto boemo. E ancora il comparto tra esistenzialismo e scetticismo: Sartre, Handke, Robbe-Grillet.
Però, attenzione! Questo appuntamento su “Coselli” doveva proseguire in un modo, ma la vita – ça va sans dir – si è intromessa. È accaduto che ho interrotto la scrittura al precedente paragrafo, sono stato al cinema e ho visto The gone girl (i distributori italiani l’hanno intitolato L’amore bugiardo, ma non ha alcun senso). Calma. Un passo indietro. Il post di oggi riguarda Meg Hitchock, un’artista che ha creato delle pitture utilizzando parole e lettere provenienti da testi sacri. Dalla Bibbia al Corano, ma anche dai Versetti satanici di Salman Rushdie. Anche The gone girl parla delle infrazioni al sacro (il matrimonio, ma potrebbe esserci qualunque altra cosa ideologicamente e culturalmente designata come “autorevole”), dell’horror vacui, di altri cruenti talami nuziali. Il linguaggio è forsennato, serrato, non sbaglia un colpo. Investe sulla meraviglia dello spettatore, sul compiacerlo per ciò che sta guardando e adotta un punto di vista filmico assolutamente interno. È questa la sua forza perturbante: il racconto della ragazza scomparsa viene da una terra desolata, da un post che non è soltanto postmoderno, ma è il day after di un’intera civiltà.
Scritture del sacro e scritture desacralizzate. Il sacro non immette al divino, almeno non solo: il sacro pone il sigillo dell’autorevole, anche del proibito. Renato Serra, grande scrittore d’inizio Novecento, si meravigliava di fronte all’amato Kipling, sorprendendosi che l’inglese “indiano” si addentrasse oltre quei confini che “i Padroni della Vita e della Morte” ci hanno proibito di oltrepassare. Ora quella linea è superata. Tutto è nella luce, nell’esposizione, nel visibile e fatalmente anche nell’oscurità. Ma questa è cronaca degli ultimi tempi, non c’è niente di nuovo sotto il sole. Le creazioni artistiche della Hitchock sono dispositivi riproducibili in moduli infinitamente identici, dove di volta in volta la costante rimane la ripetizione.
Insomma, a quanto pare le cose stanno così: Edipo non ha reagito alla sua personale epifania del male accecandosi, ma prendendo tempo. Può darsi che le cose stiano così, ma nessun finale è mai davvero un finale; ovunque sia sorta la stella della complicazione, nelle grafie espressive costituite dalle parole del sacro o negli abilissimi film di Hollywood, i giochi sono aperti, ma sarebbe scortese accettare scommesse.
Filippo Polenchi