Le abitudini degli scrittori
Lo so: a prima vista direte che ne abbiamo già parlato. Non è del tutto esatto. Vi state riferendo a un altro post, di altra longitudine, di altro cielo: si parlava di notte, d’insonnia, di maledetta insonnia. Qui la sfera d’influenza è un’altra. Rientra in quella fenomenologia dello scrittore-uomo che alimenta il mito di se stessa quand’invece quel mito andrebbe distrutto, in quanto mito, e rinsaldato in quanto antropologia, anzi no: andrebbe solo preso come un fatto accidentale ma divertente, un’appendice pop che ci fa ridere.
Fanno un po’ ridere – di riso buono, di riso di risaia insomma, ma non colto spezzandosi la schiena, solo degustato nel risotto – anche queste infografiche. Scrive di giorno o di notte uno scrittore? E preferisce accompagnarsi da cani o da gatti? Facezie? Non proprio, almeno se non nello spirito di quell’efflorescenza da galleria d’arte – purché off – che si diceva prima. Insomma, divertiamoci e non la si prenda come scienza (per carità) e nemmeno come spia della causa che soggiace all’effetto. Giochiamo alla fisiognomica del divertimento. Al riconoscimento facile, all’immediatamente linkabile.
Che ne direste del buon vecchio Feodor. Dostoevskij naturalmente. Scriveva di giorno o di notte? Di notte, è chiaro: tutto il suo lavoro è illuminato da un’oscura luce che riluce negli abissi, ma che svapora fatua alla luce del sole. E di Eliot? Il poeta straziato? Certe angosce non possono rivelarsi al sole. Anche Balzac, certo non un illustratore di bozzetti innocui, ma allestitore di sudatissimi tableaux umani, scriveva di notte: ipertrofia insonne, silenzio d’attorno. È chiaro che il gioco, come ogni gioco, presta il fianco alla crudeltà. Proust ambienta la più celebre scena di risveglio di memoria davanti a una memorabile tazza di tè e poi scopro che beveva caffè. Anche il mio spirito antifrastico soffre.
Non fatico, invece, a immaginarmi un Kurt Vonnegut con uno qualsiasi dei suoi mille figlioli in compagnia di un cane o di Burroughs che soccombe davanti a qualche caramella lisergica in compagnia del suo gatto. Fa parte della cronologia interna a ogni autore, invece, la possibilità di essere svelti nella scrittura, Stephen King, o lenti, Joyce. È la cronaca evenemenziale della redazione stessa che parla per loro.
Insomma, il gioco ci piace. Trasmette una minima idea di quel tanto di ossessione e indispensabile abitudinarietà che spetta alla scrittura. Poca ispirazione, molta sudorazione. È un gioco, inoltre, che ha due caratteristiche innegabili. Una è un poco sconfortante, ovvero la necessità – ancora attuale e insuperata da alcun storicismo – di procedere per opposizioni. Derrida mi aiuterà. Non ce la possiamo proprio fare e siamo vittime quotidiane del dualismo. Ma la seconda caratteristica, che paradossalmente annulla la prima pur tenendola in piedi, è che per tutto c’è uno sguardo altrove che ci fa sentire meno prigionieri. Sì, ok, posso scrivere di giorno – ma anche di notte. A tutto c’è un’alternativa, spesso inimmaginabile (caffè proustiano invece che tè). Ovunque una via ulteriore, foss’anche di fuga. Ciao.
Filippo Polenchi