Le vite degli altri
Invisibili agli altri. Frondeggiarsi con le ombre di altre personalità per essere ancora se stessi: darsi assenti, mandare una maschera o una marionetta in avanscoperta, perché si possa godere, da spettatori, a quello che accadrà alla maschera stessa. In fondo l’uso di pseudonimi, ancor più che difendere la privacy dello scrittore o della personalità che si cela dietro il nom de plume, è uno spioncino dal quale un occhio può fissare la realtà; è un fatto di voyeurismo (sia detto senza malizia), è il gusto della previsione, la tendenza onnipotente a creare fantocci e darli in pasto all’inganno che siano autonomi. Ma invece sono zombi, sono coscienze vampirizzate dai loro creatori, sono altrettanti personaggi, emanazioni. Stephen King: Richard Bachman. Lui se ne intende di personaggi che si fanno, pericolosamente, metà oscure di incauti stregoni di carta. Anche Fernando Pessoa e i suoi eteronomi, nomi più reali del reale tanto che si citavano fra sé, sapeva cosa significa nascondersi dietro un vetro e osservare la vita degli altri, mentre noi si è lanciato in quella buriana un esploratore, un’avanguardia di noi stessi. Alcuni, come Dickens, dovevano difendere la reputazioni, altri, come Orwell, volevano proteggere la famiglia oppure altri ancora, come le sorelle Bronte, be’, dovevano dissumulare il loro essere donne. Perciò sì, c’è come una malinconia nell’uso degli pseudonimi, uno sdoppiamento obliquo, la traslucenza della propria scomparsa. Un’elegia all’assenza.