Libri più liberi
Dell’opera d’arte rimane l’intrinseca bellezza, depositata sulla soglia dell’intellegibile. Rimangono i dettagli, lo zoom necessario perché dal macro si possa vedere il micro; perché dalle parole a grandi lettere si riesca a vedere l’intaglio di libri, lo scavo in altri libri perché il codice della parola scritta si riproduca in parola fisica e di nuovo in segno. Corpo e forma, nel balletto che va in replica da anni.
Quello che però mi sembra più interessante, almeno, mi sembra interessante parlarne qui è l’antichità del libro. Ormai il libro, il codice del libro, è talmente patrimonio condiviso che si utilizza per ricomposizioni, per installazioni. Moltissimi artisti celebrano il libro straniandolo: lo fanno a pezzi, lo trasformano in lampada, usano i libri che costruire parole, per immaginarli come quinte di uno spettacolo mozzafiato. Conosciamo talmente bene il libro che sentiamo il bisogno di ridargli linfa vitale utilizzandolo lontano dal suo contesto. Acclamiamo il libro nell’uditorio dell’umanità per svegliarla, lei, l’umanità e dirle: “questo è il libro, te lo ricordi?”.
Tuttavia ogni celebrazione estrema suona anche come un requiem. Nadir e zenit si toccano. Queste operazioni sono un omaggio, ma anche un commiato dal caro estinto. Il libro è spezzettato, ricombinato, sfregiato anche perché non ha più quell’aura sacra che lo proteggeva dall’iconoclastia creativa. Adesso è alla stregua di un tostapane, che può diventare installazione robotica. Oppure è forse la desacralizzazione del libro che lo renderà davvero libero. Per il momento osservo senza giudicare.
Filippo Polenchi