Moda e Storia
L’estate è per una definizione non scritta la stagione delle frivolezze e degli orrori. Le frivolezze sono quelle che giungono direttamente dai rotocalchi che sempre meno affollano le spiagge italiane – ma una geografia più sconclusionata, imprevedibile e, in definitiva, più complessa prende il posto di quelle vecchie e care riviste di gossip, come vecchia e cara è una zia che ci portava al mare in luglio, prima delle vacanze in agosto coi genitori – mentre gli orrori provengono direttamente dalle nostre infanzie di Notte Horror, il martedì sera su una televisione privata della quale non farò il nome perché… perché.
Perciò non è fuori di cervello parlare di abiti e moda, alta moda, nel senso di alta cultura modaiola, di moda e cultura che si legano insieme. C’è un paradosso divertente, come tutti i paradossi, ed è il seguente: la moda è quanto di più transitorio esista; ciò che la stagione premia nella prossima stagione sarà evaporato come pulviscolo. E se però si adoperano i libri come abiti alla moda – com’è venuto in mente all’artista Carrie Schumacher – di cosa stiamo parlando? Sempre di moda transitoria?
I libri sono fatti, almeno nei casi migliori, per restare, per imprimersi nella memoria e nella Storia. Sarebbe impensabile destinare Dostoevskij alle bizze di un anticiclone o anche il ben più popolare Dumas ai vezzi di un vernissage. Eppure la cara Carrie (spero non si infastidisca se la chiamo così) non si preoccupa troppo: lei cuce e veste, taglia e immagina. Le pagine dei libri diventano le falde di gonne e corpetti e abiti e coprispalle (anche perché non necessariamente le “stoffe” sono degli emeriti russi o di qualche poeta trascendentale). E che strane creature emergono da queste ibridazioni: vestiti dai grandi piumaggi, abiti lunghi che sembrano il sogno di una divinità pagana, la metamorfosi di un dio capriccioso. Ma anche queste, forse, sono bizzarrie dell’estate. Dove dietro la frivolezza si nasconde l’orrore.
Filippo Polenchi