Nome e cosa
Dialogo tra amici: “Hai letto I delitti dell’abbazia?”. “Quale? Quello dei monaci assassinati nell’abbazia medievale?”. “Sì, proprio lui. Lo scrittore è scomparso qualche giorno fa”. “Pace all’anima sua”. E ancora: “L’hai vista la serie tv tratta dal romanzo Storiaccia?”. “Sì, quello sulla banda criminale”. Perché se è vero che le parole sono importanti, anche i nomi lo sono. In questa galleria fotografica i titoli pensati all’origine per i libri sono apposti alle copertine scelte definitivamente, con un sottile effetto straniante oltreché incredibilmente gustoso.
La gastronomia di queste variazioni sul tema del possibile è appunto racchiusa in quell’ipotesi di finale che non ha mai avuto luogo. Non molte cose hanno più gusto che poter ritornare a vestire di realtà una situazione che ne era ormai spoglia, una situazione che, come direbbe Deleuze, è “esausta”. Dell’esausto è l’aver risolto la sua forza potenziale nell’incertezza di uno stadio mai superato. E così per questi titoli: immobili alla soglia della vigilia e mai superata; essi vivono (essi vivono!) in una condizione di eterna promessa e gli albi e le glorie e i premi e le menzioni e le classificazioni negli archivi e nei dizionari a tema non spettano a loro.
Nella possibilità c’è anche l’oblio. In quello che poteva essere e non è stato si cela un interstizio che l’uomo può abitare. In quella nicchia comoda e calda non ci sono rischi da prendere, perché non ci sono azioni da compiere; non ci sono rischi da prendere, né scommesse da sudare. Se tutto rimane inespresso non c’è pericolo di dire il nome sbagliato. In questi esercizi di anti-divinazione, dove la profezia è al contrario e il gioco è sul what if c’è forse il segreto della scrittura: essere potenti nella potenza, avere le proprie mani nella pasta dell’ipotesi, essere insomma il padrone del castello dei destini probabili.
Filippo Polenchi