Una storia su Sant’Agostino, che mi ha raccontato un diacono. Agostino si domanda cosa facesse Dio prima di creare l’Esistente. Risposta: Dio stava preparando l’inferno per i curiosi. Non c’è fuga dal tempo, qualcosa anche Dio doveva pur farla, seppure il tempo è una categoria assolutamente umana. Questa è la condizione e in fin dei conti la mia cantica dantesca preferita è il Purgatorio: così umano, sommesso, misurato. Lacrime e dignità. Nel Purgatorio i morti sbiadiscono con lentezza se i vivi li ricordano. Ho sempre trovato che questo scacco all’oblio, o tentativo sublime di scacco all’oblio, fosse estendibile alla condizione umana. Tutti noi fuggiamo dall’aspra dimenticanza.
Gli scrittori si misurano con la memoria. Se il buon vecchio Marcel (Proust) ha un’idea dell’arte come estensione foscoliana della salvezza, propedeutica serendipità al tempo ritrovato, un grandissimo come Roberto Bolaño ha utilizzato tutta la sua decrescente forza per scrivere il più possibile, convinto che la memoria imperitura fosse un territorio da abitare, un’affollatissima casa nella quale per entrare è necessario fare a spintoni.
In questo post sono elencati alcuni dei più bei musei letterari d’Italia: sono le case degli scrittori, adesso disposte a museo. Manzoni, Verga, Leopardi, D’Annunzio e tanti altri. I luoghi privati si confondono con quelli pubblici, in un cortocircuito che spesso gli scrittori stessi hanno cercato. Alcuni sono schivi e fanno vita monacale, ritirata, altri sono rockstar colmi di eccessi. C’è sempre, però, una sottrazione del privato, un’esposizione alla pluralità degli sguardi che in qualche modo sacrifica (anche) la casa dello scrittore prim’ancora che lui, per qualunque motivo, smetta di abitarla.
Non che voglia qui dare spiegazioni o legare con cuciture parti slabbrate di un discorso interrotto e interrompibile. Il fatto, però, è che si potrebbe con estrema facilità tessere una trama che veda la memoria e questa privazione del privato come punti privilegiati. È difficile immaginare Manzoni che prendeva il caffè nella sua dimora milanese o Leopardi che agitava i suoi inquiete sonni giovanili sognando una fuga che nelle sale di Monaldo era impossibile, perché ormai non c’è più alcuna “normalità” dentro ai loro domicili. Se la “celebrità”, nei suoi vari gradi, allontana la persona dalla normalità anche la sua casa diviene “di tutti”.
Ogni museo tenta di catalogare razionalmente temi e comunanze che attraversando il tempo ne descrivano un’idea. Nelle case-museo linguaggi familiari, utensili e manufatti, oggetti impiegati per scopi silenziosi e quotidiani, per abluzioni e nutrimento, divengono reperti e documenti. Di tanto si spoglia la vita di una persona al momento della sua scomparsa. I sussurri che hanno attraversato quei corridoi si congelano nelle indicazioni delle guide. È un aut aut: vivere per sempre lontano da se stessi o morire una volta per tutte impugnando le proprie spoglie.
Comunque la mettiamo è necessario seguire una traccia leggera. E sia. Allora queste case saranno semplicemente lo specchio di un’epoca e di una personalità celebre, magnetica, intelligente, che a sua volta ha ospitato su quel sofà o a quel tavolo altre personalità di spicco. Quei pavimenti hanno retto lo scricchiolante peso di scrittori e artisti e quel soffitto ha attutito la pioggia. Vorremmo interrogarli, i muri, per farci raccontare le parole che per anni hanno volteggiato nella bassa frequenza della dimora, ma i muri non parlano. Lo fanno solo in regioni che non sono quelle della veglia e solo attraverso un mormorio.
Filippo Polenchi