Ragazzi prodigio
Voglio parlare di un film che mi sta a cuore. Un film di qualche anno fa: Wonder Boys. Regia: Curtis Hanson, lo stesso di L.A. Confidential e di una manciata di altri film piccoli ma buoni. Cast stellare: Michael Douglas, Robert Downey Jr., Tobey Maguire, Katie Holmes, Frances McDormand e una mezza dozzina di bravissimi caratteristi. Wonder Boys è tratto da un romanzo di quel genio meccanico di Michael Chabon e parla di scrittori. Parla di scrittura, di Pittsburgh, della vita universitaria ai seminari di scrittura creativa post-laurea. Parla di ragazzi prodigio, come da titolo appunto, di cosa si fa per procrastinare la resa dei conti, di cosa significhi trascinarsi per non ammettere il vuoto, la noia, la necessità di assumersi la responsabilità e la scommessa di essere vivi e di continuare a vivere (che poi è, mi pare adesso, una perfetta metafora della dipendenza).
Nel film M. Douglas è un professore di scrittura creativa. Divenne celebre sette anni prima per aver scritto il libro di successo (di critica presumiamo) La figlia dell’incendiario e grazie a quel passaporto è stato assunto come docente in un college. In un febbraio pieno di neve, nel pieno del Wordsfest – il festival di scrittura locale, una specie di Pordenonelegge o del Festival della Letteratura di Mantova qui da noi, solo che si svolge nel mezzo dell’inverno, fra sale accademiche di mogano e luci calde e locali in collina dove sfangare la serata, oppure in case di legno, con bovindo come passerelle per vedere la strada e cercare di scrivere – il professore si troverà in un mare di guai per colpa di Tobey Maguire. In tutto questo Douglas, da sette anni, sta scrivendo il suo secondo romanzo: un bestione di 2000 pagine la cui fine sembra allontanarsi sempre più. Ci penserà il suo editor, Robert Downey Jr., ad accelerare il processo del destino.
Si scrive perché ci abitano certi demoni. Almeno è questo che si dice. Si scrive perché si è ricevuto un’illuminazione, un marchio – e questo è già più misterioso – e spetta a certi maestri coltivare la voce dell’allievo promettente (anche facendogli passare un weekend di guai). Ma quand’è e perché non si scrive più? Cos’è il vuoto – non già il blocco dello scrittore, che è una menzogna ormai riconosciuta – che accompagna alcuni scrittori in certi momenti della propria vita? E come si passa il guado? Non ci sono fedi più affidabili della fiducia nei propri mezzi perché si riesca ad attraversare il mare aperto periglioso, quando appare. Forse è necessario appigliarsi ai classici: ai (pochi) citati nel film, a Dylan in accompagnamento musicale (di recente, nuovo classico). No, non c’è una ricetta. La navigazione è in piena oscurità. Buttare tutto all’aria, avere il coraggio di chiudere i propri fogli in una scatola e affidarla alle correnti ascensionali di una darsena, questo forse potrebbe essere il rimedio, ma non è sicuro. “A quanto mi risulta i segni del destino sono un tantino più sfumati”, dice il professore, con quell’aria leggera, ironica, salda, zen, progressista e novecentesca che gli appartiene. Forse il vuoto capita solo a chi è nato nel Novecento, allora: tutti gli altri, nati sull’orlo del baratro, ci sono abituati. Non ci sono risposte. “Non rispetto i nuovi standard”, dice l’editor. “E quali sono?”, chiede lo scrittore. “Non so… competenza forse?”.
Filippo Polenchi