Scritture della luce
Puro incanto, che m’innamora ancora una volta gli occhi. C’è tanta poesia e mistero in questo oggetto traslucente, tanto abbacinante bianco e nero, che è quello dei sogni. Nella nettezza ondeggiante dei contorni, nella musica atonale dell’accompagnamento percussivo, di timpani e casse, nella sospensione lieve della versione cinematografica di un racconto che si adatta così dolcemente e lievemente al film da pensare di essere il “copione” perfetto, in tutto questo c’è incanto.
Stiamo parlando del Naso di Gogol (1836), nella mirabile versione d’animazione cinematografica di Alexander Alexeieff (1963). Questo straordinario regista è un uomo della Russia. È nato nel 1901 ed è morto nel 1982. Ha partecipato entusiasta alla Rivoluzione d’Ottobre (1917), ha fatto in tempo a pentirsene, a girare il mondo tra Parigi e il Giappone, ad abbeverare lo sguardo tra le incisioni e le illustrazioni, delle quali diventa presto un campione. Ritorna in patria e inventa un particolare sistema di ripresa d’animazione, il cosiddetto ecran d’epingles: “lo schermo di spilli”. È un procedimento ingegnoso e come ho letto in un articolo, è una sorta di oggettivazione concreta di quel principio ottico e filosofico sotto il cui arco è iscritta la storia dei pixel. Su un pannello bianco sono posizionati 500mila spilli che entrano ed escono dal medesimo, ciascuno posizionato a un’altezza diversa. Due faretti sono disposti ai lati del pannello e proiettano così le ombre di ciascuno spillo; manovrando le luci si dosano le diverse sfumature del grigio e si disegnano – come i pixel per l’appunto – punti che vanno a formare un’immagine. Adesso immaginate questo procedimento moltiplicato in termini di fotogrammi e dunque di sequenze.
L’immagine non è mai stata così materica, letteralmente. Alexeieff ebbe questa visione durante un periodo di convalescenza dalla tubercolosi. Nel sanatorio la vita si sospende, si chiude nelle parentesi dell’incertezza e frammenta in un arcipelago di istanti la scadenza del tempo. Tutto è possibile in questa protezione oscura e uterina. La realtà perde la sua fuorviante esattezza: tutta la sua esclusiva ottusità di discernere il vero dal falso. La lezione esemplare del racconto di Arthur Schnitzler Doppio sogno (1925, che poi è stato anche il doppio-salto-mortale di Kubrick, che ha realizzato il suo ultimo film nel 1999 Eyes wide shut, traendo spunto proprio dalla novella dello scrittore austriaco) è che anche i sogni fanno parte della realtà, non già come guida al pensiero e all’azione, ma come faro puntato sulle zone buie e sotterranee della coscienza, fantasia oppiacea di un degente nello stesso ideale sanatorio di Alexeieff.
Guardatelo questo Naso “animato”, come sfugge alla codificazione dello spettatore. Nel generatore d’ombre del cinematografo queste immagini sono pura materia pulsante; è lo spillo, lo stesso dei dispetti e dei fachiri, meditazione di carne e sangue. E non solo. Scrittura e cinema non sono mai stati così vicini. Cugini scomodi, figli di accoppiamenti giudiziosi, in questa tecnica la distanza è colmata, giacché le immagini stesse scaturiscono dalle ferite del pennino; alfabeto luminoso, anche la parola rompe la corteccia del buio per rivelarsi. Come siamo in difficoltà a decifrare la notturna bellezza di questo cortometraggio dalle immagini di carbone, così disabituati a ragionare sull’immagine stessa. È bene ridirlo: ogni film è sì un racconto per immagini, ma è anche e soprattutto un racconto delle immagini. Oltre la storia che racconta il racconto del film (si perdoni il gioco di parole) è l’immagine che lo crea, per l’appunto dall’ombra con una luce. Qui il prodigio del Naso (doppia paternità: Gogol e Alexeieff) traccia la strada doppia della scrittura e del cinema: quella della divinazione sciamanica e liturgia della luce. Sacro e profano.
Il naso di Gogol, poi, si presta benissimo alle inquiete nebbie iridescenti di Alexeiff. È una storia metanarrativa sulle condizioni attuali della modernità e sui compiti dell’arte. Un assessore tronfio e clientelare, Kovalev si sveglia al mattino senza naso. Dopo lo sconcerto iniziale e la necessaria ricerca per le strade di Pietroburgo Kovalev vede scendere da una carrozza il suo stesso naso, con un’uniforme da alto funzionario statale. Kovalev tenta di convincere il suo naso a tornare a posto, ma quest’ultimo non ne vuol sapere, anzi: non riconosce affatto il suo proprietario. Kovalev è sempre più disperato, finché una guardia gli riporta un naso trovato nella Neva (ce l’ha buttato il barbiere Ivan, all’inizio del racconto) e una mattina Kovalev si risveglia con il naso di nuovo al suo posto. Niente è cambiato. Nessuna metamorfosi nell’animo del protagonista. Anche il mondo moderno, come quello antico, è costellato di simboli e mistero, ma non esiste un’algebra che predisponga alla risoluzione e comprensione. Su tutto resta il mistero, l’incertezza del significato.
Allora, qual è il compito dello scrittore? Secondo Gogol non è più così facile dirlo. Anzi, Gogol sembra suggerirci che spesso gli scrittori dovrebbero fare un passo indietro e riconoscere solo il mistero, anziché volerlo comprendere. Anche in Kafka le cose stanno proprio così e non a caso Alexeieff prestò il suo ingegno per realizzare due sequenze del Processo di Orson Welles, tratto proprio da Kafka. Gogol è un uomo nuovo del vecchio secolo, atterrisce di fronte alla deriva. Ma oppone a questa realtà la indiscutibile oggettività della scrittura, che bene o male si continua a fare. E allora che continui a salvarci, avendo cura di accudire un poco di luce in mezzo al buio.
Filippo Polenchi