Sei quel che mangi!
Sei quel che mangi. Uno spettro s’aggira per l’Europa e nel mondo pascolano vitelli d’ignota paternità. Dev’esserci stato un tempo alternativo nel quale i bagliori cinerini delle televisioni del pianeta non trasmettevano programmi di cucina: ora, quel tempo, s’è perso del tutto, fagocitato letteralmente dalla voracità insaziabile di bocche e occhi. Il virus dei programmi di cucina s’è impossessato della vista e immediatamente ha creato la dipendenza da se stesso e l’annullamento d’ogni gusto. Food porn lo chiamano: azzeramento della meraviglia nell’eccesso di offerta visiva.
Sei quel che mangi. Ricordalo. Coltiva la tua verdura, alleva il bestiame personalmente. Te ne sarai riconoscente. Vecchio motto degli antropologi che studiano le tribù di oscure latitudini: mangiare ciò che si è sacrificato è un acquisto di tempo, una quidditas quantitativa che allunga la misura di ciò che ti rimane da vivere. La ricetta funziona meglio, ovvio, con un tuo simile. È tempo che riconosce se stesso.
Sei quel che mangi. Perciò abbi cura di capire com’è composto il tuo nutrimento. Conosci le proprietà dei tuoi alimenti. Una vecchia insegnante delle scuole medie mi disse che un ottimo sistema d’educazione è insegnare a cucinare. Cercare la ricetta giusta, dispiegarla sul tavolo, studiarla, adattarla alle esigenze, decidere se attenersi al piano oppure virare per un’effrazione alla norma, infine portare a compimento la preparazione: seguire una ricetta è studiare la logica del mondo.
In questa pagina l’artista Pawel Piotrowski ha creato dei “sandwich book”. In definitiva si tratta di graziosi suppellettili, che mi lasciano una specie di acquolina in bocca, la sensazione di un antipasto non consumato, il piacere immaginifico di stendere poche brevi spezzate note. La prima riprende quella formula “food porn”: fotografie oscenamente esibizionistiche di piatti culinari e tavole imbandite. Condivisione estrema della propria tavola, non a scopo ecumenico, bensì ad uso esclusivo di un circuito costruito intorno al “guardare ma non toccare”. Controindicazioni di questa pratica: far passare l’appetito – che mi avevano insegnato “venir mangiando” – e gonfiare il ventre di nulla. Come in un romanzo di Dickens siamo orfanelli denutriti.
Nelle installazioni di Piotrowski il cibo è la lettura. Noi, da queste parti, non potremmo essere più d’accordo. La lettura innesca un circolo virtuoso nel quale comunicano occhi, pensiero e voce. L’oralità della lettura consente il doppio binario di far uscire parole e nutrirsi delle stesse. Fin quando ci saranno canali per dire parole allora ci saranno anche canali per ammetterne l’ingresso e così sarà possibile conoscere il mondo nominandolo. Non più delusione edenica, ma rinnovato programma di “slow food”.
Ancora sul food porn. Poi basta, giuro. La ricetta è esclusa dalla fotografia. Esiste solo quello che l’obiettivo mostra. In un certo senso è anche proibito conoscere la ricetta. Questo comporta due conseguenze: la prima è che ogni rapporto allacciato con il food porn ha una fortissima componente di dominazione sadomasochista, dunque perversamente avvezza all’oblio della scelta; la seconda è che il food porn esclude dalla conoscenza del mondo, dalla ricerca di un senso e fatalmente dalla possibilità di lasciare un segno oltre la cronaca dei giorni.
Ultima nota. Ma davvero vivevamo in un mondo senza programmi di cucina? Cosa si nasconde dietro a questo proliferare di show dedicati ai ricettari? Forse la diffusione di una Weltanschauung sotto copertura: non consapevolezza alimentare, ma messaggio subliminale per farci comprare solo certi prodotti, solo certe marche? Guide del complotto che impolverano sugli scaffali delle librerie del complotto, ma che aprono una conclusione provvisoria: sei quel che mangi, perciò scegli bene chi vuoi essere.
Filippo Polenchi