Te lo leggo negli occhi
Cosa penso quando leggo? Anzi: cosa sembro quando leggo e mi piace o non mi piace o disprezzo o amo quello che leggo? Se avessi uno specchio piazzato in faccia e se mi ci guardassi dentro e se avessi un altro specchio che rifrange la prima immagine e mi fa vedere cosa sono quando non mi vedo, ma ci sono, ecco allora avrei un’immagine che corrisponde a quello che m’interessa dire adesso oppure avrei queste recensioni facciali.
Recensioni che recuperano i tempi delle comiche anni ’10, mimica pura, nessuna sovrastruttura culturale o spiegazione marchettara che possa tenere il confronto con un viso che recita “Brillante” (faccia #338), oppure “Ma piantatela di dirlo un capolavoro” (#337, il povero Boris Vian) o “Interesting” (#62, La fisica dei supereroi). E non c’è solo la faccia – anzi: il “facciale”, come più si conviene a un’espressione che è teatro e corpo – c’è il travestimento, il minimo tocco di effetto speciale che accompagna la riflessione.
E intanto, però, il messaggio passa. E le stroncature arrivano oppure i gusti trapelano, più semplicemente. Laddove la parola s’è fatta più cauta, più pavida soccorre il teatro, perfino il vaudeville. Perché la missione è sempre e comunque curare la verità. Può accadere che sia la parola a fallire, che viva un momento storico d’impasse (forse siamo in quel momento), ma la verità è troppo preziosa perché sia abbandonata. È comunque un gran divertimento.
Il blog ha perfino una classifica top, quindi va da sé che il suggerimento per tutti sia crearvela da soli una classifica di queste facce da recensori. Naturale che il pensiero vada alla critica, alla povera e bistrattata critica. Pensiero debole, accesso tecnologico, facilità di proferire verbo e di crearsi un’opinione su quello che si legge… la critica un giorno sparì. Forse è stata uccisa dalla sua stessa vanità, forse dallo spirito dei tempi, fatto sta che lo spirito critico resiste invece. Sono questi simpatici buontemponi che lo portano fieramente in giro per il mondo e così forse continuerà a vivere.
Filippo Polenchi