Tutti i colori tristi, tutti i colori felici
Di che materia è fatta un’ossessione? E come le si sta addosso? Voglio dire: è una cosa da corteggiare, con dovizia, pazienza, passione, fiducia e tutto il resto oppure è una faccenda rabbiosa, si strappi, di singulti? Non sono mai riuscito a dedicarmi all’ossessione con tenacia. Sarà un bene o sarà un male? Più interessante di una fenomenologia personale dell’ossessione, però, è una sintomatologia altrui: in chi attecchisce l’ossessione? E quali sono gli oscuri oggetti dell’ossessione? E perché ricorre così spesso la lettera “o” in queste ultime frasi? Non lo so, è davvero un mistero. Questa artista si è imposto la lettura di Infinite jest, il romanzo (l’ultimo? Re pallido è un romanzo? È un romanzo uscito?) del 1996 di David Foster Wallace. Il monstre che l’ha consacrato, che l’ha distrutto, che ha segnato un tragico punto di non ritorno nella sua felice ispirazione narrativa.
Insomma, Corrie Baldauf inizia leggendo Infinite jest (1200 pagine nella versione italiana pubblicata da Einaudi). La prima volta molla. Riprova. Un’altra volta: molla ancora. Poi inizia a segnare i colori sulle pagine. Mi spiego: mette un post-it giallo ogni volta che il testo di DFW fa riferimento al colore “giallo”; ne mette uno rosso quando si fa riferimento al “rosso” e così via. Finisce il libro. È la prima volta. E allora? Ricomincia e lo rilegge. Questa è ossessione.
Il fatto è che Infinite jest è un romanzo d’ossessioni e ossessionati. Per il successo, per la droga, per lo spettacolo. E più in profondità: per l’agonismo autodistruttivo, per l’autodistruttività, per l’oblio, per la necessità di stordirci sempre e comunque; ossessione per la noia, per la tristezza, per la morte, per le trame, per la complicazione, per il rimandare sempre e comunque; ossessione per la depressione, per la macchinazione, per il garbuglio, per questo assurdo stare al mondo e vivere nel tempo. Ed è un romanzo tossico. Anch’io l’ho letto. Nel 2010. Di notte. Nel senso che non riuscivo a staccarmene. È un romanzo di un tossico scritto per intossicare.
Eppure in questa fosca terra desolata ci sono tutti questi colori. Guardate le foto. Guardate che bellezza di caleidoscopio. Come può una persona che usa tutti questi colori parlare così attentamente e così da vicino e con tale competenza e angoscia di quello che ci annoia così tanto da renderlo il nostro nemico stesso e tutto si faccia purché quel nemico sia sconfitto compreso il rimedio definitivo di annodarsi una corda al collo? Come si può avere gli occhi così sensibili alla luce e alla sua scomposizione, allo spettro della policromia, così eccitante e più di una qualunque birra o di una qualunque sostanza e raccontare la morte per eccesso di oblio? Da dove vengono questi demoni? Giacché non credo che siamo nati per l’infelicità. Eppure io non lo so. Io non lo so davvero da dove arrivano i demoni di DFW, ma so che lui li ha raccontati così bene.
Filippo Polenchi