Urbano troppo urbano
Certi dettagli sono indelebili. Le vetrate attraverso le quali si spiano i vapori di caffè e di piastre elettriche; le ferite di condensa che graffiano la superficie trasparente della tavola calda. Occhi immersi nel gelo, che desiderano il non-gelo di un inverno climatizzato. Studiano la messinscena dell’agghiaccio, agghiacciano quegli occhi. Le notti sulle gratelle della stazione, gli effluvi di vapori e di miasmi, gli oltraggi schivati e quelli raccolti. Una vita raccolta sulla linea sinusoidale del non-più-vivo, ma anche del non-ancora-morto.
Scomparire agli occhi di chi, dall’altra parte della membrana trasparente, sorbisce i caffè caldi, inzuppa le sue tasche di tè verde nei bollitori, ordina un altro piatto di uova e bacon. Uova e bacon, il cibo dell’urbanità, la gabella provvisoria di un urbano anch’esso precario. Poi tutto sparisce, nel segno della sparizione, tutto torna all’invisibilità. Il giorno, quando da Est si trascina appresso la coltre di nubi d’acciaio, getta tutto nell’oblio.
Tramite la fondazione Kapucynska i clochard di Varsavia hanno avuto la propria occasione non soltanto di scrivere – e scrivono memoir, racconti, stralci autobiografici, poesie – ma di intessere di un inchiostro speciale il proprio libro. Il libro dell’inverno. Si legge soltanto a basse temperature. Un inchiostro chimicamente alterato per essere esclusivo, in qualche modo, per essere elusivo. Si legge d’inverno, si legge sotto la neve, lontano dalle graticole dove il vapore riscalda, arrostice, dove la pena si cuoce nel sonno. Mi domando chi saranno i lettori, a parte esploratori esotici dell’urbano-troppo-urbano. Mi domando se lo leggerei, se avrei il coraggio di avvicinare una parola così lontana, il “povero”, nella mia mente così distratta. E mentre me lo chiedo spero che l’inverno svanisca presto. Molto presto.
Filippo Polenchi